Risorse Bibliografiche
ABBÀ Giuseppe, Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale - 1, (Biblioteca di Scienze Religiose - 118), Las, Roma 1996, pp. 329.
ABBÀ Giuseppe, Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale - 1, (Biblioteca di Scienze Religiose - 118), Las, Roma 1996, pp. 329.
In alcune delle molte ed ottime recensioni di libri di Etica che il Prof. G. Abbà pubblica sulla rivista “Salesianum”, questi è solito manifestare il suo particolare apprezzamento per un’opera indicando che essa non dovrebbe mancare nella biblioteca dello studioso. I due libri di questo A. che hanno preceduto e preparato quello che adesso commentiamo: Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d’Aquino (Las, Roma 1983), e Felicità, vita buona e virtù (Las, Roma 19952), eccellevano sotto ogni punto di vista. Ma l’ultimo pubblicato viene in qualche modo a collocarli in un secondo piano: parafrasando quel suo modo di dire, credo di poter affermare — senza timore di incorrere nell’esagerazione — che esso dovrebbe annoverarsi tra quei libri di più frequente consultazione che il filosofo e il teologo moralista ha sempre a portata di mano nel suo ufficio. Ma veniamo al merito.Questo libro, racconta l’A. nella Prefazione, è sorto dal progetto di redigere un testo universitario di filosofia morale. Ma esso, strada facendo, è poi diventato l’avvio di una serie di ricerche connesse tra di loro in modo da formare un cursus di filosofia morale da completare in successivi volumi, con scadenze non fisse. Tra i motivi di questo cambiamento nel progetto originale ci sarebbe proprio quello che giustifica il titolo di questo primo volume: il fatto che non è per niente ovvio come vada impostata la filosofia morale.Al punto di avvio della filosofia morale è dedicato il Capitolo I (pp. 9-31). Inizia l’A. esprimendo una sua certezza, la cui ovvietà non la fa per niente superflua: è ineludibile iniziare la ricerca di filosofia morale in medias res, cioè prendendo costantemente come punto di riferimento la propria esperienza morale prefilosofica (o, più precisamente, la “pratica morale”, che va accuratamente distinta dal “fatto morale”), e procedendo sia a interrogare le filosofie morali (o, più precisamente, le figure di filosofia morale”) alla luce di quell’esperienza, sia a interrogare questa alla luce di quelle. Seguono alcune spiegazioni sulla metodologia dialettica che l’autore si propone di seguire, poiché — segnala — ciò è richiesto dalla natura stessa della ricerca filosofica.Nel Capitolo II (pp. 33-203) l’A. procede ad una ricognizione storica delle principali figure di filosofia morale, selezionandole e interrogandole allo scopo di desumere indicazioni sull’impostazione stessa del discorso morale, reperendo la domanda principale a cui cercano di dare risposta. E quali sarebbero concretamente queste “principali figure della filosofia morale”? L’autore ne indica cinque, come altrettanti modi di intendere il discorso morale: 1. Come ricerca sulla vita migliore da condurre (Aristotele e s. Tommaso); 2. Come ricerca sulla legge morale da osservare (Kant); 3. Come ricerca delle regole per la collaborazione sociale (Hobbes); 4. Come spiegazione per il comportamento umano (Hume); e, 5. Come scienza per la produzione d’un buon stato di cose (Utilitarismo).Il criterio in virtù del quale sono state selezionate queste cinque figure di filosofia morale, fra tante altre possibili, non è soltanto la loro grande influenza storica, ma anche il fatto che queste impostazioni sono state tutte ricuperate e rinnovate a partire dalla seconda metà del secolo XX, e sono così diventate voci principali nel dibattito morale odierno. Gli stessi criteri verranno applicati dall’autore quando, lungo la sua ricognizione storica, troverà che per ogni figura è reperibile una tradizione che dà origine a successive diverse varietà appartenenti alla medesima specie: si soffermerà su quelle che hanno dato avvio ad una nuova impostazione della ricerca morale, accennando appena alle varietà derivate.Questo è quanto ci è possibile dire qui delle molte pagine in cui l’A. effettua la sua ricca e profonda ricognizione storica. Ma non vorrei omettere un riferimento particolare a quelle dedicate all’esposizione ed analisi dell’impostazione aristotelica e della sua vicenda storica, così come alla conversione tomista dell’etica aristotelica e alla sua rispettiva vicenda storica. Nonostante la brevità di questa rassegna (pp. 34-74), e l’apparente facilità con cui scorre la riflessione, troviamo forse qui la miglior sintesi delle idee che l’A. ha maturato in questi anni di intensa ricerca su questa figura di filosofia morale.Il Capitolo III (pp. 205-315) si apre con un breve sguardo alla situazione della filosofia morale nei decenni successivi alla II Guerra Mondiale. In questo periodo, come abbiamo già notato, le cinque figure di etica prima indicate sono state tutte riproposte e si trovano in conflitto fra loro, anche se — anticipa adesso l’A. — in modo asimmetrico. Da un lato, per ragioni che adesso verranno indicate, si colloca la figura aristotelica di etica, con la sua antica ricerca sul miglior modo di condurre la vita; dall’altro stanno le altre quattro figure di etica, che sono invece riconducibili al cosiddetto progetto della modernità. L’etica tomista, pur sviluppando e perfezionando in modo notevole il progetto “antico”, non interviene in questo conflitto come interlocutore importante.Si passa così subito al confronto tra le cinque figure di etica, per mettere a fuoco le loro divergenze (confronto sistematico) ed individuare quale rende adeguatamente conto della complessità dell’esperienza morale (confronto dialettico). Questo procedimento, premette l’A., non può essere condotto mantenendo un punto di vista neutro ed esterno a queste cinque figure. Infatti per poter capire dette figure e per essere in grado di confrontarle e di discuterle bisogna essere già iniziati alla ricerca filosofica morale; ma ciò non è possibile se non si è già iniziati a qualcuna delle figure della filosofia morale, giacché la ricerca morale è condotta in ogni caso secondo una determinata impostazione. L’A. della ricerca che recensiamo è particolarmente iniziato alla figura aristotelica, e poi tomista, di filosofia morale e dall’interno di essa cerca di condurre il confronto e la discussione.Dal confronto sistematico il Prof. Abbà conclude che tra le figure di etica esistono varie importanti divergenze. Ad ogni modo, queste divergenze ci appaiono come secondarie nei confronti del fatto che tali figure di etica, pur appellandosi in maggior o minor misura all’esperienza morale, non rimandano tutte ad un termine di paragone identico, ma a termini diversi. Questa differenza radicale determina l’esistenza di due generi fondamentali di morale: cristiana e secolare (in realtà l’A. ne indica tre, ma qui operiamo una semplificazione).In questo modo restano fissati i termini della discussione dialettica circa l’impostazione da dare alla filosofia morale. Essa si articolerà in due momenti. Si tratterà, anzitutto, di trovare la risposta alla questione: quale genere di morale, cristiana o secolare, è “la morale” di cui si occupa la filosofia morale? La conclusione dell’autore sarà che una simile morale non è la morale secolare, ma è quella che l’insegnamento cristiano considera la morale naturale dei soggetti umani. Stabilita questa conclusione, eccoci finalmente al punto: quale concezione del soggetto agente, quale punto di vista (della prima o della terza persona), e — dunque — quale figura di etica è appropriata alla morale?Dall’esame dialettico nessuna figura di etica esce indenne; ciascuna è costretta a modificarsi e a rinnovarsi per far fronte ad obiezioni ed istanze avanzate dalle figure rivali. Ma l’esito dell’esame non è solo questo. Dall’esame una figura etica, quella impostata sulla ricerca della vita veramente buona, e condotta dal punto di vista del soggetto agente o della prima persona, esce come razionalmente superiore: sia perché riesce a mostrare le incongruenze, aporie, fallimenti e insufficienze presenti nelle figure rivali, ed a evitare i difetti che le rivali notano in essa, sia perché riesce a spiegare i motivi per cui le figure rivali incappano nei loro errori e invece essa stessa li può evitare.L’esame dialettico condotto secondo il programma fin qui indicato, conclude il Prof. Abbà, non è mai terminato, e tuttavia tale figura di etica potrà razionalmente avanzare pretesa di verità finché riuscirà a reggere alla prova, e ad esplicare la fecondità dei propri principi nel mostrare che essi sono in grado di far fronte a problemi nuovi ed inediti.La verità di queste conclusioni viene affermata in un modo dal forte sapore “macintyriano” (anche se, ritengo, l’A. va ben al di là di MacIntyre in diversi punti), e potrebbero causare nel lettore qualche perplessità. A mio avviso con qualche fondamento. Questo tipo di risultato era già stato preannunziato quando, nelle prime pagine, si diceva che «Non esiste filosofia morale perenne da esporre e da difendere. Esistono diverse figure storiche e diverse tradizioni di filosofia morale; non è possibile uscire dalle configurazioni storiche per giudicarle da un punto di vista superiore, neutrale, sulla base di ragioni condivise da tutti» (p. 29).Il senso preciso di queste ed altre affermazioni simili resta molto più chiaro nel contesto dell’intera opera; esse rispondono certamente ad una profonda verità — le peculiari caratteristiche del discorso morale — di cui si era persa la traccia per opera del razionalismo. Ma c’è forse un problema di accentuazione eccessiva. In fin di conti, senza la possibilità oggettiva di “assumere un punto di vista superiore”, accessibile a tutti coloro che vogliano davvero capire, sembrerebbe venir meno anche la possibilità di una giustificazione altrettanto oggettiva della stessa metodologia dialettica (perché non è giusto dare ragione al più forte?), così come della moralità dell’atto con cui vengono scelti alcuni interlocutori ed esclusi altri (qual’è il criterio per determinare quali siano le tradizioni etiche e non etiche?).E ancora: se non fosse oggettivamente (universalmente) possibile assumere quel “punto di vista superiore”, non si capisce come mai lo sarebbe stabilire una vera e propria comunicazione tra le varie tradizioni etiche, per raggiungere così un accordo su alcuni fini comuni da realizzare insieme. Ma in questo caso, non potremmo vedere nel “dialogo” altro che una semplice procedura pacifica per arrivare al compromesso (l’adesione della volontà che, volendo anzitutto la pace, rinuncia a tutte le altre valutazioni personali sul bene) o allo scambio di beni materiali.In realtà, molti di questi principi pratici superiori sembra che si possono desumere dalla descrizione che l’A. fa della morale nelle pp. 239-249, riguardo a quello che viene presentato come un’esperienza ineludibile da parte di agenti umani (e dunque, sembrerebbe, a prescindere da quale sia la tradizione etica in cui si trovino inseriti). Questi principi servirebbero, tra l’altro, a dare una giustificazione oggettiva alla concezione di bene umano che nelle nostre società pluraliste dovrebbe pur sempre ispirare le azioni dei governanti e delle leggi, e che l’autore designa come genere di vita moralmente buono (p. 293). Per questi motivi, non è assolutamente da escludere che le mie perplessità non abbiano altro fondamento che il non aver capito bene quanto l’A. intendeva dire.Com’è ovvio, tali rilievi niente tolgono a quanto dicevo all’inizio di queste righe sul valore del libro. Speriamo solo di aver presto la possibilità di accedere ai volumi in cui verrà sviluppata questa ricerca di filosofia morale così ben avviata.
GABRIEL CHALMETA