Risorse Bibliografiche
Aa. Vv., Il Rapporto di Napoli sul problema mente-corpo, Atti del Convegno «Pensiero, Coscienza, Cervello», Napoli-Vico Equense, 3-5 maggio 1990, a cura di G. Del Re & E. Mariani, I.P.E., Napoli 1991, pp. 387.
Aa. Vv., Il Rapporto di Napoli sul problema mente-corpo, Atti del Convegno «Pensiero, Coscienza, Cervello», Napoli-Vico Equense, 3-5 maggio 1990, a cura di G. Del Re & E. Mariani, I.P.E., Napoli 1991, pp. 387.
La questione dell'esistenza e dei rapporti tra corpo e anima è antichissima, sebbene abbia sperimentato un interesse crescente negli ultimi decenni: per dirla in inglese, è il mind-body problem, quale approccio di tipo concreto allo studio della natura umana. Ancor più recentemente gli studi sull’argomento si sono intensificati a causa delle implicazioni pratiche oggi particolarmente alla ribalta: eutanasia, aborto, sperimentazione in vitro, ingegneria genetica. Ne è prova il fatto che il Congresso degli Stati Uniti ha dichiarato decennio del cervello il periodo 1990-2000, e che la letteratura sull'argomento è ormai sconfinata. Perché allora indire un convegno e aggiungere un nuovo libro? E perché presentarlo sulle pagine di questa rivista?A nostro avviso, il Convegno svoltosi a Napoli e a Vico Equense dal 3 al 5 maggio 1990 su «Pensiero, Coscienza, Cervello» e i relativi Atti (corredati da buoni indici) hanno il pregio dell'approccio interdisciplinare, che consente di raggiungere stimolanti risultati. Un'interdisciplinarietà costituita da due dimensioni: la prima, come contributo degli studiosi di diverse discipline, vale a dire, dei filosofi (5 partecipanti), degli psicologi (3), dei neurologi (11) e di altri scienziati (7). Come si può osservare, la materia più largamente rappresentata è la neuroscienza, il che la dice lunga sulla tendenza odierna. Tale apporto costituisce una messa a punto non esauriente ma sufficiente del problema. Non esauriente poiché limitata ad autori dell'Italia centro-nord; ma sufficiente giacché essi non espongono i risultati delle proprie ricerche, bensì lo stato della questione nel mondo. e ciò fa di quest'opera un contributo attuale. La seconda dimensione dell'interdisciplinarietà è la metodologia impiegata, che dà a questo convegno un carattere originale. Un metodo mutuato dalle scienze positive e che porta innanzitutto a chiarire il quadro epistemologico e a presentare le proprie prospettive senza precludere le altrui vedute. Si è avuto quindi un autentico dialogo, in cui si sa parlare ma anche ascoltare, e non si nascondono le differenze ma si tenta di raggiungere l'accordo. Tale procedimento esige amore alla verità, umiltà e altre virtù, che A. Porcarelli (pp.371-378) ha riassunto in ciò che ben può essere chiamato un vademecum per chi lavora in gruppo. Ciò giova sia alla funzione euristica, sia alla funzione di controllo. Una siffatta impostazione è di vitale importanza quando si tratta di tener distinte le prospettive scientifiche e filosofiche ma, nel contempo, di non precludersi a quest'ultima. Insomma siamo davanti a un atteggiamento di collaborazione tra scienza e filosofia, che d'altronde è quello ricercato dall'Istituto per Ricerche ed Attività Educative I.P.E. , patrocinatore del Convegno.Le prevedibili difficoltà hanno portato a definire una base minima, una definizione preliminare e imperfetta, ma aperta a ulteriori perfezionamenti. Tale definizione è di carattere funzionale ossia scientifico, benché aperta a una caratterizzazione di tipo essenziale ovvero filosofico. E. Caianiello, fisico teorico, non esita ad affermare: "per fortuna, oso dire, il pensiero scientifico, allo stato attuale delle cose, è solo ben piccola parte del pensiero di cui ha bisogno ed è capace l'uomo" (p.129). In realtà aggiungiamo noi non esistono funzioni che simultaneamente non siano funzioni-di qualcosa, neanche per gli scienziati: l'AIDS, per esempio, non è la diminuzione delle difese immunitarie di un organismo, bensì un organismo che fa diminuire le difese di un altro organismo. Ciò è dovuto al fatto che il pensiero scientifico, come viene indicato nel Documento conclusivo, "si pone in continuità con il filone della ¬filosofia realista (...), giacché il realismo risulta più vicino alla sensibilità e all'esperienza di chi studia l'uomo dal punto di vista delle scienze" (pp.22-23). Costituiscono un sostegno di questa opinione le riflessioni di Somalvico (pp.323 ss.) sul “modellizzare o formalizzare”, concetti identici o quasi al classico “astrarre o formare idee” dei filosofi. Forse perciò, verso la fine del Documento conclusivo (p.55), si auspica la creazione di "una metascienza che potrà chiamarsi scienza generale della mente". (...) Ovviamente, questa nuova metascienza ha molto in comune con l'antropologia scientifica e filosofica" senza esserne però un doppione. Di ciò che non c'è dubbio è dell'esistenza di un grave problema di comunicazione e di linguaggio con la filosofia aristotelico-tomista, ritenuta come la più fedele alle scoperte scientifiche odierne (cfr. p.33). Riteniamo doveroso dire però che qualche passo è stato dato in questa direzione e concretamente in Italia: si tengano presenti, per esempio, i lavori di G. Basti e colleghi.Le due dimensioni dell'interdisciplinarietà sono state articolate costituendo un gruppo ristretto al fine di redigere un documento o protocollo d'intesa che servisse come base di discussione (a cura di L. Borghi e A. Porcarelli, pp.347-70), cui ha fatto seguito la stesura di un documento finale (a cura di G. Del Re, pp.17-55). Gli Atti pubblicano gli interventi dei partecipanti e una interessante sintesi-guida alla loro lettura (scritta da L. Borghi, pp.59-83).I contributi si snodano come segue: un primo e numeroso gruppo d'interventi riguarda la dimensione corporea dell'uomo. Biologi, medici e soprattutto neurologi lavorano per scoprire correlazioni tra aree del cervello e funzioni psichiche. Come è stato rilevato (L. Borghi, p.93), ciò non oltrepassa le pretese dei frenologi ottocenteschi. Ma i risultati sono ben diversi e si assestano su quest'af¬fermazione: esistono delle correlazioni ma non sono isomorfe. Da una parte infatti si è scoperta la complessità degli elementi ritenuti semplici: l'occhio non è ormai un inerte trasformatore e trasmettitore di segnali, come un obiettivo fotografico, ma un interprete che trasmette ai livelli superiori (corteccia cerebrale) segnali parzialmente elaborati. D'altra parte, le correlazioni conosciute riguardano una piccola zona del cervello, giacché l’80% di esso è "muto" per i nostri rilevatori. Gli studi più recenti sulla pluripotenzialità o plasticità somatica, ossia sulla minore importanza della localizzazione hanno portato D'Andrea a capovolgere la tendenza imperante nelle neuroscienze sostenendo che la funzione modella la struttura, ovvero ¬per usare le parole di questo autore¬ che la mente costruisce il cervello (pp.174-5). Pensiamo però che mancano degli studi che proseguano in questa direzione, che analizzino cioè l'influsso degli stati d'animo (consci o inconsci) sul corpo. Manca pure una distinzione che riteniamo basilare: tra attività psichica sensibile e attività psichica intellettuale. La correlazione tra soma e psiche è molto più intensa nella prima; e ad essa si riferiscono quasi esclusivamente gli studi dei neuroscienziati. Ci sono casi invece in cui si può riscontrare scientificamente l’esistenza di qualche attività intellettuale in assenza di attività cellulare: per citare un esempio limite, situazioni di coma con encefalogramma piatto e, al contempo, con pensiero completamente normale.Dal canto suo, L. Borghi (pp.93-105) mette in rilievo le condizioni epistemologiche richieste per raggiungere conclusioni valide; vuole mettere in guardia contro la purtroppo diffusa abitudine di far passare una condizione necessaria per una condizione necessaria e sufficiente. G. Valacca (pp.339-344) riassume i risultati del nuovo impulso dato agli studi sui moduli o elementi del cervello, evidenziando i limiti delle strutture parziali e l'emergenza delle strutture globali. Sono esiti che sembravano acquisizioni pacifiche dopo le ricerche della Gestalt, alla quale per altro non abbiamo trovato riferimenti. Esiti condivisi da più parti: dalla fisico-chimica, poiché molte proprietà di un livello complesso non si riscontrano nei livelli inferiori (per es. molecola-atomi); dalla teoria informatica e dei sistemi; e soprattutto dalla psicologia e dalla psichiatria. Queste ultime discipline, per il loro confronto quotidiano con il reale, si rendono conto dell'unità e della complessità dell'essere umano, e sono inoltre un magnifico banco di prova delle teorie che via via si propongono. Per gli psicologi M. Marcheschi e G. Masi (pp.229-36) non esiste per ora una sola teoria capace di rendere conto di tale complessità: tutt'oggi i migliori risultati si raggiungono con un sapiente dosaggio non un banale ecclettismo delle teorie in voga.Ad una concezione globale dell'uomo approdano pure quelle scienze che confrontano l'uomo con l'animale o con la macchina. Per la sua attualità ci soffermeremo solo sulla cosiddetta "macchina pensante" o anche "cervello artificiale". Innanzitutto, sostiene Caianiello (pp.123 ss), è indispensabile distinguere i diversi tipi di funzioni svolte. Non c’è nulla di strano nel fatto che in alcune di esse le macchine superino in forza mentale l'uomo, come lo superano in forza fisica. Così accade con una rudimentale addizionatrice meccanica; a maggior ragione le macchine elettroniche possono avvantaggiare l'uomo in funzioni più complesse: inferenze e quindi autoapprendimento e creativitବ¬ , coscienza e autocoscienza, valutazioni e decisioni. Siamo ancora lontani come giustamente scrive Lambertino (pp.215-22), pur senza nominare Searle dall'intus legere le essenze delle cose, dall'intenzionalità, dal capire ciò che si dice, dal parlare insomma. Ma è indubbio che gli elaboratori godono in un certo senso elementare di una “coscienza” e “autocoscienza”, seppur rozza: conoscono le regole del proprio operare (poiché di fatto operano), e sanno qualcosa del proprio stato interno (per esempio, il numero di parole dette, la memoria occupata, il tempo impiegato e così via).E’ anche verissimo che le macchine non reagiscono sentimentalmente, almeno allo stato attuale. In tal senso è certo che le macchine non sono influenziate dai sentimenti e quindi che non possono sbagliare. Ma non è detto che non possano farlo un domani, così come oggi reagiscono inviando un segnale, comandando altre macchine, ecc. Potrebbero, per esempio, essere programmate per dare più peso ai "sentimenti" che alle "ragioni". Nello stesso senso si può dire che l’hardware attuale è quasi completamente indipendente dal software che "gira" in esso, mentre cervello e mente si modificano a vicenda. Sembra quindi che le funzioni autoconservanti dell'individuo (autoriparazione) e della specie (autoriproduzione) siano ancora lontane dalle possibilità degli automi. E forse qui si potrebbe riscontrare, a nostro avviso, un limite teorico a queste funzioni, poiché le reazioni fisico-chimiche che in natura avvengono a bassa temperatura e con rendimenti del 100%, si ottengono artificialmente in condizioni rigorose e con una resa minima, la quale addirittura diminuisce proporzionalmente al numero di tappe del processo. Possiamo calcolare dunque la grande improbabilità che un robot costruisca un altro se stesso. La soluzione dovrebbe arrivare nell’ambito dei calcolatori paralleli. “Chi però ha provato a lavorarci sa che proprio in virtù della loro complessità intrinseca non è proprio facile programmarli", scrive D. Liberati, del Centro Teoria dei Sistemi (p.225). In ogni caso, i primi robot così costruiti si assomiglierebbero a un animale piuttosto che a un uomo (cfr. p.227).Comunque sia, il filosofo P. Prini (pp.245-9) si spinge al fondo della questione quando avverte che collocare su un piano di parità l'intelligenza umana e l'intelligenza elettronica è un falso problema. Infatti, per definizione quell'intelligenza è naturale mentre quest'ultima è artificiale, ossia arte fatta dalla naturale. In altre parole, una macchina avanzata potrà forse modificare il proprio programma, ma ci riuscirebbe perché sarebbe stata programmata per essere programmatrice; non potrebbe invece programmare il programma iniziale. (Un esperto in robotica M. Somalvico, pp.323-31 è dello stesso parere). Noi riteniamo che non esiste identità bensì analogia tra l'intelligenza naturale e l'intelligenza artificiale: entrambe hanno dei limiti invalicabili imposti dal programmatore, ma il rispettivo "programmatore" è diverso: Dio e l'uomo. Ognuna di queste intelligenze, senza modificare la propria condizione creaturale o artificiale, può effettuare modifiche all'interno dei loro limiti: per esempio, senza diventare creatore ex nihilo, l'uomo ha cominciato a variare il proprio programma genetico mediante l'omonima ingegneria.P. Prini ravvisa pure un'altra differenza profonda tra macchina e uomo: quando la prima raggiunge i suoi limiti non va avanti, si blocca; invece nella medesima situazione il secondo è capace di conoscere i propri limiti, è consapevole della mancanza di assolutezza del suo linguaggio, cioè del silenzio e quindi si mette in ascolto. A differenza dunque delle macchine, l'uomo parla e tace, parla e ascolta.Nel Documento conclusivo dei lavori vengono criticate come poco aderenti alla realtà le posizioni estreme, vale a dire il monismo (polarizzato in modo materialistico) e il dualismo (da non identificare con l'interazionismo di Eccles). Si difende quindi una concezione dell'uomo più consono con la realtà, più globale, ossia intesa come unità irriducibilmente duale. A tutto ciò corrisponde la squalifica della body science e della cognitive science in senso stretto, che dovrebbe essere sostituita secondo i partecipanti da una cognitive science in senso ampio o, in altri termini, da una mind-body science, da una mind science, da una “scienza generale della mente”.Se è vero che i partecipanti al convegno non hanno dato una risposta definitiva al problema, cosa che del resto non si erano proposti, è altrettanto vero che si sono avvicinati ad essa giacché ogni passo dato nella direzione giusta conduce alla meta. Questa via metodo è quella che essi additano ai lettori dei presenti Atti. Risulta quindi un pregevole congresso da imitare, sia nel dibattito tra scienziati e filosofi, sia tra i filosofi stessi. E la prova che il dialogo sia possibile l’abbiamo tra le mani. JAVIER VILLANUEVA